domenica 24 febbraio 2008

Traduzioni Pontano

De bello Neapolitano, Libro I, Roberto di Sanseverino
(1) Poiché tuttavia quel luogo ce lo rammenta, dirò poche cose su Roberto e la sua famiglia. Padre di Roberto fu il conte Giovanni di Sanseverino (che è il nome di quella città) e la madre Giovanna, anche lei di una famiglia scelta come quella del marito. Morto il padre, rimasti molti figli, lei rimase sola e con gran cura li nutrì e li fornì di ogni altra cosa. Infatti in casa era sia frugale che sobria e, poiché era di animo più elevato e nobile della norma del sesso femminile, volle far vedere di poter fare le veci sia del padre che della madre.
(2) Ad ogni modo, trattò con benevolenza materna tutti loro, mentre a Roberto, che essendo il più grande (motivo per cui gli toccava in sorte il potere di prerogativa del padre) sia lo assecondò oltre l’affetto materno e, finché poté accrescerne la sostanza in qualche modo, non ebbe nessuna preoccupazione al mondo.
(3) La madre aggiunse inoltre a tutte le altre degne abilità aggiunse questo: poiché credeva nella lealtà al nome del re, con questi insegnamenti, educò il figlio allo studio e alla fedeltà verso questo [il re]. Così non ottenne nulla prima che rendere gradito Roberto, eccellentemente educato, a Ferdinando, per ciò che quelle abilità permettevano.
(4) Lui quindi, quando per primo raggiunse l’età adatta, andando a cavallo, cacciando ed esercitandosi con i suoi coetanei ora al giavellotto ora alla spada, non sprecò l’adolescenza in nessun turpe ozio; anzi si dedicò per qualche tempo allo studio delle lettere, alle quali si impegnò con maggior cura quando fu cresciuto. Dunque con queste abilità facilmente emergeva fra i suoi pari e a Ferdinando per queste soprattutto era particolarmente gradito, aiutato anche in questo dai doni della natura, poiché era di bell’aspetto, di statura slanciata e dignitosa, e, a seconda dell’occasione, sapeva esprimersi in modo non meno piacevole che grave o sincero.
(5) Lui stesso [era] disponibile ad essere avvicinato, piacevole nelle risposte e soprattutto cortese e generoso, la sua casa era sempre piena di persone fra le più generose e oneste; certamente mostrava in ogni singola cosa la nobiltà della sua stirpe, che alcuni preferiscono di origine gallica, altri italica.
De bello Neapolitano, Libro I, Isabella di Chiaramonte, Regina di Napoli
(1) Della quale, poiché la materia lo richiede, diremo qualcosa. Padre di Isabella fu Tristano conte di Copertino, della famiglia di Chiaramonte, che in Francia è ritenuta nobilissima, mentre la madre era Caterina, sorella per entrambi i genitori di Giovanni Antonio (Orsini) Tarantino che causò questa guerra.
(2) Morto il padre Giovanni Antonio la tenne e la educò insieme a quattro sorelle (lei era la minore) a Lecce nel Salento. Dopo aver dato in sposa le sorelle e dopo la vittoria di Alfonso, per iniziativa dello zio, e pure secondo il desiderio di Alfonso, venne sposata da Ferrante, che il padre aveva nominato erede del regno napoletano.
(3) Isabella fin dai primi anni dimostrò un amore straordinario per la pudicizia e la moderazione, sobria in casa, non desiderosa delle cose d’altri, attenta all’apparenza quanto la dignità lo richiedeva, dedita alla religione non senza superstizione, facile da avvicinare, sincera più che dura nelle risposte, magnanima, saggia, costante nelle avversità, moderata nei tempi prosperi, dall’eloquio popolare e in nessuna di queste cose si comportava in modo falso o macchinoso, giusta e onesta anche giudicando le contese.
(4) La morte le proibì di (poter) esercitare gratitudine e generosità: infatti finita la guerra, quanto tuttavia ancora la situazione del regno non si era stabilizzata, un giorno morì a Napoli, lasciando già sei figli. La sua morte fu dolorosa per il popolo, poiché tutti i migliori la ritenevano di gran lunga una vita preziosissima.
De bello Neapolitano, Libro II, La battaglia di Cosenza
(1) Davanti alla città, presso il fiume Bissento c’è un luogo il cui nome è “Arcavacata”, mercato di cose da vendere. Dopo che i capi arrivarono là con l’esercito, cominciato subito il consiglio di guerra, incitati i soldati perché si guadagnassero più preda che combattimenti, decisero di occupare il monte che si oppone alla rocca da occidente. Questo monte era tenuto da Niccolò Antonio Caroleo con una gran quantità di soldati, inoltre essendo i nemici a conoscenza dell’arrivo dei due Roberto (Sanseverino e Orsini) occuparono il monte avendo raccolto una falange di 7000 fanti dalle città vicine.
(2) I cavalieri avendo sferrato un forte attacco cacciano facilmente dal monte la fanteria che, poco abituata alla battaglia, quando vide i cavalieri lanciarsi in file serrate, in parte gettate le armi si rivolge alla fuga, altri, esortati da Caroleo mentre attaccano battaglia o sono presi dalla cavalleria irruente, oppure sono feriti e non molto tempo dopo tutti messi in fuga lasciano il monte libero ai cavalieri. Per queste cose i condottieri, spinti dalla vittoria e dalla velocità, affinché non venisse lasciato ai cittadini il tempo di rendersi conto di ciò che succedeva, subito scendono dal monte.
(3) Francesco Siscar comandante della rocca mandati avanti alcuni che esplorassero bene il territorio (temeva infatti di essere catturato con l’inganno), quando, superata la vallata vide venire verso di sé le truppe schierate e riconobbe entrambi i capi, le insegne e i soldati, esortato perché agisse sollecitamente, fece rientrare nella rocca loro (i suoi).
(4) Allora Roberto Ursino, per riempire il cuore dei soldati di speranza, poiché certamente si era reso conto di dover sfruttare il vantaggio della velocità, disse: “Soldati, dovete pranzare in città. Sia a voi gloria per la vostra virtù; distruggete con me le fortificazioni”. Detto questo, infiammati i soldati, qualcuno aggredisce il vallo, qualcuno distrugge il terrapieno, una parte, combattendo corpo a corpo, invade le fortificazioni.
(5) Quelli che combattevano alla difesa, sostenuto a mala pena il primo attacco, gettate le armi scappano; la fanteria, mischiata a quelli, entra nella città attraverso un pendio non più difeso da nessuno. Ma i cittadini, attoniti per la velocità con cui si erano svolte le cose, non si opposero ai nemici, non presero le armi, non bloccarono le strade della città con barriere, alcuni si chiudevano in casa, altri si arrendevano ai soldati, i più fuggivano nelle chiese, le donne, i bambini, i vecchio riempivano l’aria di grida, pianti e alti lamenti. Le case e le strade risuonavano per le irruzioni dei soldati e per il fragore delle porte e dei cancelli.
(6) Nel frattempo Ursino, avendo aperto una porta della città con la scure, fece entrare i cavalieri. Allora davvero l’esercito era sparso per tutta la città, cosicché fu chiaro che la città era stata presa del tutto: non c’era niente da fare, non era stato risparmiato nulla né di sacro né di profano, ogni cosa era stata compiuta nel nome dell’ira e della volontà di ciascuno, vergini stuprate, madri spogliate, fanciulli strappati dalle braccia dei parenti, né le case, né le strade, né i templi erano vuoti di lutto e commiserazione, ai vinti venivano inflitte cose fra le più crudeli, terribili e aspre. Nel frattempo gli stessi vincitori, mentre si contendevano con la forza gli un con gli altri la preda per avidità, arrivavano perfino a rivolgersi contro le armi. Fino a questo punto era miserevole l’aspetto del saccheggio.
De bello Neapolitano, Libro II, Battaglia di Acri. Ferocia di Maso
(ovvero: quando Giovanni e i suoi amichetti litigavano tiravano le trecce alle fanciulle)
(1) Dunque Acri è posta in cima a un monte, circondata saldamente da un muro in pochissimi punti, per tutti i restanti lati da un terrapieno e da rupi, e tutt’intorno a duemila passi dalla città scorre il fiume Mucrone, dal cui guado fino a quella stessa città sale con un ripido pendio il dorso di un monte, che gli abitanti chiamano Serrone.
(2) Battista era solito disporre delle sentinelle al guado ogni singola notte, che spiassero attraverso le tenebre e se qualcuno avesse attraversato il fiume immediatamente sarebbero andate a riferirlo.
(3) Quindi attraversato il fiume poiché a causa della negligenza delle sentinelle nessuno quella notte sorvegliava il fiume, dopo che i soldati che erano stati mandati avanti con Milano e Bilancino, e con nessun rumore affatto erano giunti al posto di guardia, in completo silenzio avevano tagliato la gola alle guardie e le sostituiscono con alcuni scelti fra le loro fila, che restituissero ai cittadini i segni già da prima indagati e resi noti secondo l’abitudine delle guardie.
(4) Quando finalmente ricevuto il segno, dopo essere rimasti per un pochino in silenzio, videro arrivare Maso con le truppe, oltrepassano con gran forza il vallo mentre ancora i cittadini dormono e il centurione Gatto, che custodiva il vallo, prendono inerme e mezzo addormentato, quindi i soldati armati di scudo e dopo quelli armati di archibugio e di balestra, occupate le strade, irrompono nel mercato (centro?). Perciò scontrandosi con i cittadini e i soldati, ferocemente attaccano battaglia mentre da ogni dove si sollevano grandi grida;
(5) in mezzo a questa Maso tentando di distruggere la porta è respinto con grande sforzo da quelli che accorrevano , tuttavia giungendo altri e altri soldati viene aperto un passaggio attraverso la porta. I soldati entrati nella formazione con cui erano arrivati irrompono (e) si fanno strada con la spada. Ovunque vien fatta strage di ogni genere di persone.
(6) Battista colpito dalla velocità della cosa mandando fuori altri e altri soldati, lui stesso con pochi veterani fugge verso la collina di una vecchia rocca, e lì dopo aver resistito per un po’ contro gli attaccanti, alla fine soverchiato e quasi circondato dai nemici, si salva a malapena con la fuga attraverso rupi aspre e luoghi dirupati nelle montagne, e usando il beneficio della notte con un piccolo numero di servi raggiunge Longobuco (ci sono alcuni che ritengono che anticamente fosse Themese per le vene metallifere).
(7) Dunque presa la città i soldati si rivolgono alla preda e non lasciano da fare nulla né per la preda né per la crudeltà. Ogni cosa viene fatta in modo indistinto per il sacro e il profano. Niccolò Clancioffo per ordine di quello stesso capo viene segato con una sega piantata dai fianchi fino alla metà del dorso, raro esempio di un genere di crudeltà e supplizio nuovo e mai visto prima.
De bello Neapolitano, Libro II, Maso Barrese
Mentre le cose erano così amministrate nella Calabria degli Abruzzi , Giovanni Ventimila mandato da Ferdinando per l’autorità dell’età e la gloria delle gesta compiute raggiunse la riva del mare negli Abruzzi e quello che prima aveva meditato per la riconciliazione concluse con quello, fra i due che si accordavano si stabilì anche questo, che Giovanna figlia di Antonio avrebbe sposato Maso , scritte le condizioni delle decisioni di entrambi, affinché le rocche, i campi e i beni che erano suoi di Antonio e dei figli di lui gli fossero dovuti per diritto ereditario della moglie, e quelle stesse cose che lui stesso una volta aveva occupato, Maso fosse dichiarato capo di Castrovillari con le sue terre e rocche, le quali lui stesso teneva per diritto.
(2) Essendo arrivati ad un accordo e inorgoglito da queste cose e dalla gloria delle gesta militari Maso, sceso alla fine delle Terre Nove con tutte le truppe, immediatamente prende quella città e insieme San Giorgio, dalla cui rocca ordina che Ruggero Orilio, cavaliere napoletano e due altri nobili, vengano gettati dal pinnacolo più alto nelle scarpate molto ripide: spettacolo davvero orrendo, inumano, nuovo anche per la crudeltà in un supplizio di nobili in quel tempo in Italia (comminato) sia da amici che da avversari.
(3) Ci sono alcuni che scusano questo comportamento con il fatto che Giovanni Barrese fratello di Maso fosse stato ucciso dal popolo nel mercato di Cosenza inutilmente e per nessuna motivazione chiara: con questo genere di vendetta questo avrebbe voluto vendicare il fratello ucciso.
(4) Da là partito contro Galeotto Baldassino, che era già passato agli angioini, mossosi di notte con estremo silenzio con le scale, catturò la città che si chiama Oppido e, presala, la saccheggiò e con un gran bottino tornato a Terra Nova vi passò l’inverno; e con il pretesto di un colloquio e di antiche consuetudini intendeva catturare Marino Curiale, che teneva Gerace, lui, saputa la cosa per mezzo di un amico, evitò l’inganno e l’imboscata con una fuga davvero rapida, fu tanto veloce che il cavallo che lo portava per la troppa velocità morì nel tragitto.
(5) C’erano in Maso grandi virtù sia nel corpo che nell’animo, soprattutto la ferma sopportazione della fatica, e un’altrettanto grande la resistenza al caldo e al freddo; aveva un tenore di vita perlopiù militare, di abbigliamento provvisorio e per questi a stento si distingueva dagli altri; lui stesso era d’esempio ai soldati nel sopportare la fame; un desiderio insaziabile di onore e gloria, una bramosia infinita d’avere, e non meno per poter darne agli altri che per possederne lui stesso ma soprattutto un disprezzo incredibile del rischio e un’enorme audacia nelle imprese più difficili; tuttavia l’ira e la superbia deformavano il suo grande e quasi buon animo.
(6) Così fatta la pace e compostesi le cose nel regno, mentre andava a Napoli quando incontrò Giovanni Spatafora, uomo che gli era avversario e soprattutto nemico (!), che stava arrivando in città per salutare sua grazia il re, rapido lo fa a pezzi con la spada per l’ira e l’impotenza, motivo per cui, messo in carcere, dopo alcuni anni coperto di sporcizia e sozzure trascurato un giorno là morì: uomo certamente degno di un animo più mite di quello cui era fornito se non soprattutto molto amato da tutti, fu certamente meno austero del principe.
De bello Neapolitano, Libro V, Ferrante e i vinti
(1) Quindi il re, disposte le truppe nei luoghi opportuni, giunto a Taranto, trovò tutte le cose pacificate, e nessuna città di nessuna popolazione, in cui non entrò benevolmente e (da cui) non fosse accolto con gioia, e lui le ricompensò in pubblico e in privato e soprattutto i notabili con privilegi, doni, benefici e alcuni liberò dalle imposte, altri ornò con stipendi e con l’ordine equestre.
(2) Sistemate le cose nelle province, in quella primavera tornò a Napoli vincitore e insigne per fama e ricchezze, accompagnato anche da molti oratori, che erano andati con lui, e altri uomini famosi in guerra e in pace, fra cui Alessandro Sforza, che lo aveva raggiunto da Teati, e il Cardinale Bartolomeo [Carella].
(3) Portava anche con sé Giulio Antonio, la cui opera e i cui consigli gli erano stati utilissimi sia in pace che in guerra, con il cui comando un po’ di tempo dopo compì molte imprese con coraggio e altre ne amministrò felicemente, del resto lui si segnalò come uomo degno non meno in toga che in armi, adatto a incarichi anche notevolissimi in patria e all’esterno.
(4) Entrando Ferdinando a Napoli il popolo e la gente lo riempì di onori non trascurabili. Ovunque si mostrano i segni di gioia e letizia da parte di uomini e donne di ogni età, nelle chiese, nei potici, nei crocicchi e nelle case dei privati cittadini. Lui dopo aver dato risposta alle cose civiche e oratorie che in molti erano venuti a congratularsi dalle città d’Italia, tornato alla questione della guerra, si dedica con maggiore impegno all’assedio di Ischia, e fa costruire una flotta.
(5) Quindi, essendosi adoperato prima per corrompere i custodi con molte arti, assale Castel dell’Ovo avvicinando macchine da guerra enormi per dimensioni, tuttavia a vuoto (e) con perdita di molte macchine e tempo. In realtà molto tempo dopo, costretto dalla fame, il prefetto cedette la rocca, la quale, perquisita dappertutto, non vi fu trovato da mangiare niente affatto di più che un pochino di sale in un vasetto e una manciatina di cavolo salato: fino a questo punto il prefetto e i difensori si dimostrarono d’animo forte ed ostinato.

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