Davanti il Castel Vecchio di Verona
Tal mormoravi possente e rapidoSotto i romani ponti, o verde Adige,
Brillando dal limpido gorgo,
La tua scorrente canzone al sole, 4
Quando Odoacre dinanzi a l'impeto
Di Teodorico cesse, e tra l'erulo
Eccidio passavan su i carri
Diritte e bionde le donne amàle 8
Entro la bella Verona, odinici
Carmi intonando: raccolta al vescovo
Intorno, l'italica plebe
Sporgea la croce supplice a' Goti. 12
Tale da i monti di neve rigidi,
Ne la diffusa letizia argentea
Del placido verno, o fuggente
Infaticato, mormori e vai 16
Sotto il merlato ponte scaligero,
Tra nere moli, tra squallidi alberi,
A i colli sereni, a le torri,
Onde abbrunate piangon le insegne 20
Il ritornante giorno funereo
Del primo eletto re da l'Italia
Francata: tu, Adige, canti
La tua scorrente canzone al sole. 24
Anch'io, bel fiume, canto: e il mio cantico
Nel picciol verso raccoglie i secoli,
E il cuore al pensiero balzando
Segue la strofe che sorge e trema. 28
Ma la mia strofe vanirà torbida
Ne gli anni: eterno poeta, o Adige,
Tu ancor tra le sparse macerie
Di questi colli turriti, quando 32
Su le rovine de la basilica
Di Zeno al sole sibili il còlubro,
Ancor canterai nel deserto
I tedi insonni dell'infinito. 36
L'ode di cui mi sono occupata, è un testo poco studiato e poco amato ma ha il pregio di riuscire a raccogliere nel giro di poche strofe molti degli argomenti e dei problemi della poetica carducciana: l'amore per il paesaggio italiano e per la storia che da quel paesaggio spira, il controverso attaccamento alla monarchia, l'uso dell'autocommento, il racconto in poesia della difficoltà della poesia e infine lo scioglimento e l'abbandono a una morte serena, che coinvolge l'intera umanità ma che appartiene soprattutto al poeta, che non vuole più combattere.
La poesia fu composta fra il 9 e l'11 gennaio 1884, durante un breve soggiorno a Verona testimoniato da alcune lettere1, probabilmente presso i coniugi Gargiolli. Compare per la prima volta sul Fanfulla della Domenica poco meno di un mese dopo, il 3 febbraio 1884, e poi nelle Terze Odi Barbare (d'ora in poi TB) del 1889.
In questa edizione Davanti il Castel Vecchio di Verona si trovava fra Su Monte Mario e Da Desenzano, mentre nell'edizione definitiva (Delle Odi barbare di Giosuè Carducci libri II ordinati e corretti, 1893 e tutte le seguenti) segue l'ode Sirmione e precede Per la morte di Napoleone Eugenio.
La poesia fu composta fra il 9 e l'11 gennaio 1884, durante un breve soggiorno a Verona testimoniato da alcune lettere1, probabilmente presso i coniugi Gargiolli. Compare per la prima volta sul Fanfulla della Domenica poco meno di un mese dopo, il 3 febbraio 1884, e poi nelle Terze Odi Barbare (d'ora in poi TB) del 1889.
In questa edizione Davanti il Castel Vecchio di Verona si trovava fra Su Monte Mario e Da Desenzano, mentre nell'edizione definitiva (Delle Odi barbare di Giosuè Carducci libri II ordinati e corretti, 1893 e tutte le seguenti) segue l'ode Sirmione e precede Per la morte di Napoleone Eugenio.
Varianti redazionali
Non passa molto tempo fra la stesura autografa e l’uscita sul Fanfulla della Domenica, quindi le varianti più importanti si riscontrano fra l'edizione in rivista e la prima uscita nelle TB, eccetto ovviamente i cambiamenti che risalgono alla prima stesura del testo.
Di questa prima stesura si possono distinguere due fasi, infatti la cartellina dell’autografo contiene una prima copia della poesia di mano di Carducci e una seconda di mano di Carlo Gargiolli (che indico con CG), con alcune correzioni di Carducci; nel passaggio dall’una all’altra versione la poesia è fatta: cambiato il titolo e fatte alcune modifiche importanti che danno il senso definitivo al testo; per esempio l'ultimo verso passa da le immense noie dell'infinito a i tedi insonni dell'infinito (CG), oppure il verso 10 da carmi cantando diventa carmi intonando, eliminando la troppo forte catena allitterante in ca.
In generale l'elaborazione non sembra particolarmente faticosa, la maggior parte delle strofe viene da sé, tranne una, la settima, che quella più a lungo rielaborata a prima della pubblicazione e addirittura fra la prima uscita a stampa e le TB. Riporto i passaggi per come sono testimoniati dall'edizione critica Papini, da cui riprendo il sistema di simboli:
Prima stesura Di questa prima stesura si possono distinguere due fasi, infatti la cartellina dell’autografo contiene una prima copia della poesia di mano di Carducci e una seconda di mano di Carlo Gargiolli (che indico con CG), con alcune correzioni di Carducci; nel passaggio dall’una all’altra versione la poesia è fatta: cambiato il titolo e fatte alcune modifiche importanti che danno il senso definitivo al testo; per esempio l'ultimo verso passa da le immense noie dell'infinito a i tedi insonni dell'infinito (CG), oppure il verso 10 da carmi cantando diventa carmi intonando, eliminando la troppo forte catena allitterante in ca.
In generale l'elaborazione non sembra particolarmente faticosa, la maggior parte delle strofe viene da sé, tranne una, la settima, che quella più a lungo rielaborata a prima della pubblicazione e addirittura fra la prima uscita a stampa e le TB. Riporto i passaggi per come sono testimoniati dall'edizione critica Papini, da cui riprendo il sistema di simboli:
Anch'io, bel fiume, canto: e il mio cantico
in picciol verso raccoglie i secoli,
e arridon due occhi sereni
e arride presente una musa
a la tremante strofe che corre
sorge
subito sotto
e arridon sereni due occhi
[e arrid]e [seren]a una viva
di musa alla strofe che sorge
Musa all’ardita [strofe che sorge]
il giorno dopo:
e arride presente una vera
viva
musa a la strofe che sorge e trema
CG:
Anch'io, bel fiume, canto: e il mio cantico
e arride presente una musa
vera a la strofe che trema e sorge.
Fanfulla della Domenica:
e arride presente una musa
vera a la strofe che sorge e trema.
TB:
Anch'io, bel fiume, canto: e il mio cantico
nel picciol verso raccoglie i secoli,
e il cuore al pensiero balzando
segue la strofe che sorge e trema.
Anche il titolo muta fra la stesura autografa e TB. Infatti la cartellina che contiene gli autografi porta il titolo: Su la piazzola del Castelvecchio / in Verona, mentre sul Fanfulla della Domenica troviamo Nella piazza del Castelvecchio di Verona e poi definitivamente nelle TB diventa Davanti il Castel Vecchio di Verona. Come di frequente nelle Odi barbare, il titolo è un locativo e il motivo della varianza è imputabile al desiderio di aumentare la solennità del luogo a scapito del realismo prima con l'eliminazione del diminutivo piazzola, poi radicalmente dell’indicazione della piazza lasciando solo l'immagine austera del castello.
Altri cambiamenti rilevabili fra i testi a stampa intervengono su dettagli ortografici (d'inanzi > dinanzi) eccetto quelli che seguono:
Al verso 11 notiamo che a una prima versione sporgea la croce pregando a i Goti elaborata già in GC, Carducci nelle TB preferisce sporgea la croce supplice a' Goti, scelra che mi pare imputabile a motivi di ritmo: nella seconda versione il verso risulta più rapido, grazie all'inserimento del dattilo reso con la sdrucciola supplice. D'altra parte la seconda versione risulta semanticamente più ricca soprattutto se si legge supplice come ipallage di croce.
Mentre il verso precedente è nato senza destare preoccupazioni, il verso 23 ha subìto un’elaborazione piuttosto travagliata nella zona dell’attacco, e mi permetto di dire un'elaborazione non perfettamente riuscita:
il primo autografo legge piangon: tu, adige, canti ovviamente con lettura dieretica
già nella stesura CG diventa rimpiangon: tu, Adige, canti immutato nel Fanfulla della Domenica
nelle bozze delle TB troviamo piangono: tu, Adige, canti immediatamente sostituito con la versione definitiva: francata: tu, Adige, canti.
L'ultima trasformazione comporta, come è ovvio, delle modifiche alla punteggiatura ed è dovuta, probabilmente, alla sensazione di eccessiva ripetizione di piangon, già presente al v. 20, mentre le prime mutazioni cercano forse una soluzione metrico-ritmica accettabile.
Al verso 11 notiamo che a una prima versione sporgea la croce pregando a i Goti elaborata già in GC, Carducci nelle TB preferisce sporgea la croce supplice a' Goti, scelra che mi pare imputabile a motivi di ritmo: nella seconda versione il verso risulta più rapido, grazie all'inserimento del dattilo reso con la sdrucciola supplice. D'altra parte la seconda versione risulta semanticamente più ricca soprattutto se si legge supplice come ipallage di croce.
Mentre il verso precedente è nato senza destare preoccupazioni, il verso 23 ha subìto un’elaborazione piuttosto travagliata nella zona dell’attacco, e mi permetto di dire un'elaborazione non perfettamente riuscita:
il primo autografo legge piangon: tu, adige, canti ovviamente con lettura dieretica
già nella stesura CG diventa rimpiangon: tu, Adige, canti immutato nel Fanfulla della Domenica
nelle bozze delle TB troviamo piangono: tu, Adige, canti immediatamente sostituito con la versione definitiva: francata: tu, Adige, canti.
L'ultima trasformazione comporta, come è ovvio, delle modifiche alla punteggiatura ed è dovuta, probabilmente, alla sensazione di eccessiva ripetizione di piangon, già presente al v. 20, mentre le prime mutazioni cercano forse una soluzione metrico-ritmica accettabile.
Analisi metrica
Si tratta di un'ode in 9 strofe alcaiche, ovvero formate come di consueto da due endecasillabi alcaici, resi con due quinari accoppiati di cui il primo piano e il secondo sdrucciolo, un enneasillabo reso con un novenario (sempre regolarmente di 2° 5° e 8°), mentre il decasillabo viene reso esclusivamente con due quinari piani accoppiati, soluzione non comunissima, che si ritrova in Alla mensa dell’amico, Per le nozze di mia figlia, Figurine Vecchie, Saluto d’autunno e A una bottiglia di Valtellina. Al contrario, la soluzione più comunemente usata da Carducci è invece quella di Ideale, dove il decasillabo viene reso con un endecasillabo acefalo oppure il decasillabo manzoniano di Alla stazione in una mattina d'autunno.
Struttura e ritmo
Il testo segue una struttura tripartita dal punto di vista dei temi e, di conseguenza, del ritmo. Le nove strofe sono divisibili in modo molto equilibrato: nelle prime tre alla descrizione del fiume segue la visione del passato medievale con lo scontro fra gli eruli e gli ostrogoti, mentre dalla 4° alla 6° il fiume continua a scorrere nel presente, pacifico e infaticato nonostante ricorra l'anniversario della morte di Vittorio Emanuele II, giorno di lutto per gli uomini; le ultime tre strofe si proiettano nel futuro: quando il canto del poeta e la vita sulla terra spariranno il fiume continuerà a cantare con la consueta placida serenità, e il poeta si chiude su se stesso e medita sulla sua ispirazione. Questa scansione è individuabile anche a colpo d’occhio dalla simmetria degli incipit dei versi 1 e 13 (Tal/Tale), che negli autografi nascono da un Così/Qual, e si oppongono all’Anch'io che apre il verso 25.
Mi sembra di poter individuare, ma forse è un'ipotesi azzardata, che a partire dal v. 29 Carducci ripercorra all'indietro la struttura triadica fin qui esposta, nel senso che compaiono prima la strofe (già al v. 28), poi i colli turriti (v. 19) e infine la basilica di San Zeno che, come sappiamo, ha uno strettissimo legame con il ricordo di Teodorico nell'immaginario carducciano (cfr più sotto, Fra storia e leggenda).
I passaggi di tono e tema sono rimarcati dagli attacchi dei versi, che nelle prime 3 strofe seguono rigidamente lo schema DDGG, mentre la seconda parte della poesia si presenta variegata, con una maggiore quantità di dattili che segnano un ritmo più lento coerentemente con il tema luttuoso. La terza parte vede una netta prevalenza di attacchi giambici in corrispondenza con il momento di maggiore impegno e riflessione; in generale notiamo une prevalenza di attacchi giambici (20 su 36)1.
Mi sembra di poter individuare, ma forse è un'ipotesi azzardata, che a partire dal v. 29 Carducci ripercorra all'indietro la struttura triadica fin qui esposta, nel senso che compaiono prima la strofe (già al v. 28), poi i colli turriti (v. 19) e infine la basilica di San Zeno che, come sappiamo, ha uno strettissimo legame con il ricordo di Teodorico nell'immaginario carducciano (cfr più sotto, Fra storia e leggenda).
I passaggi di tono e tema sono rimarcati dagli attacchi dei versi, che nelle prime 3 strofe seguono rigidamente lo schema DDGG, mentre la seconda parte della poesia si presenta variegata, con una maggiore quantità di dattili che segnano un ritmo più lento coerentemente con il tema luttuoso. La terza parte vede una netta prevalenza di attacchi giambici in corrispondenza con il momento di maggiore impegno e riflessione; in generale notiamo une prevalenza di attacchi giambici (20 su 36)1.
Commento
Fin dai primi versi al fiume sono sempre avvicinate immagini di velocità e lucentezza, al contrario di quanto abbiamo osservato in Pe 'l Chiarone di Civitavecchia: Stendonsi livide l'acque in linea lunga che trema (v.3), su le mortifere acque (v. 48) ecc.
Infatti immagini di luminosità e serenità accompagnano sempre la canzone dell'Adige, dalla prima strofa pervasa di luce: brillando dal limpido gorgo, / la tua scorrente canzone al sole fino all'ultima parte del componimento, quando il mondo è un deserto di macerie; ma anche l'inverno della quarta strofa è detto placido e caratterizzato da una diffusa letizia argentea che coinvolge anche i colli sereni al punto che l'inverno e il lutto sembrano caratterizzare solo il paesaggio umano: la scorrente canzone al sole dell'Adige torna identica al v. 24.
Faccio notare per inciso come la quarta strofa sia in assonanza con i notissimi versi di Orazio nei Carmina (I,9):
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
Silvae laborantes, geluque
Flumina constiterint acuto.
e l'assonanza è per altro confermata dal confronto con la prima stesura in cui figurava tale dai monti di neve candidi, e in generale la primissima stesura gioca attorno all'idea dei monti oggi candidi di neve (cfr Edizione critica p. 345).
In questa strofa e soprattuto in quella successiva possiamo individuare quella che Baldacci2 ritrova in Pianto antico e chiama “tecnica del contrasto” ovvero “una drammatizzazione, cioè [...] un elemento dialettico e come tale romantico; ma anche puramente coloristico, e come tale classico e classicistico”. Là le immagini primaverili si opponevano all'inverno dell'anima, ai sentimenti bui del poeta, qui la differenziazione, lo stacco hanno motivazioni più filosofiche e indirette, sicuramente meno d'effetto, sebbene anche in Davanti il Castel Vecchio la serenità, la letizia, la placidità della natura caratterizzati da luce e colori chiari siano opposte alle nere moli, alle torri, alle insegne abbrunate, e in questa dialettizzazione mi pare che anche gli alberi siano squallidi – cioè spogli, ma con un aggettivo fortemente connotato – perché non appartengono ai colli sereni ma sono quelli urbani, quasi artificiali, che ornano i nostri monumenti storici. Da notare inoltre che almeno nella quinta e nella sesta strofa alla ritmica degli attacchi corrisponde precisamente l'argomento, se si considera solamente celebrativo (quindi giambico) il riferimento al primo eletto re da l'Italia.
Infatti immagini di luminosità e serenità accompagnano sempre la canzone dell'Adige, dalla prima strofa pervasa di luce: brillando dal limpido gorgo, / la tua scorrente canzone al sole fino all'ultima parte del componimento, quando il mondo è un deserto di macerie; ma anche l'inverno della quarta strofa è detto placido e caratterizzato da una diffusa letizia argentea che coinvolge anche i colli sereni al punto che l'inverno e il lutto sembrano caratterizzare solo il paesaggio umano: la scorrente canzone al sole dell'Adige torna identica al v. 24.
Faccio notare per inciso come la quarta strofa sia in assonanza con i notissimi versi di Orazio nei Carmina (I,9):
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
Silvae laborantes, geluque
Flumina constiterint acuto.
e l'assonanza è per altro confermata dal confronto con la prima stesura in cui figurava tale dai monti di neve candidi, e in generale la primissima stesura gioca attorno all'idea dei monti oggi candidi di neve (cfr Edizione critica p. 345).
In questa strofa e soprattuto in quella successiva possiamo individuare quella che Baldacci2 ritrova in Pianto antico e chiama “tecnica del contrasto” ovvero “una drammatizzazione, cioè [...] un elemento dialettico e come tale romantico; ma anche puramente coloristico, e come tale classico e classicistico”. Là le immagini primaverili si opponevano all'inverno dell'anima, ai sentimenti bui del poeta, qui la differenziazione, lo stacco hanno motivazioni più filosofiche e indirette, sicuramente meno d'effetto, sebbene anche in Davanti il Castel Vecchio la serenità, la letizia, la placidità della natura caratterizzati da luce e colori chiari siano opposte alle nere moli, alle torri, alle insegne abbrunate, e in questa dialettizzazione mi pare che anche gli alberi siano squallidi – cioè spogli, ma con un aggettivo fortemente connotato – perché non appartengono ai colli sereni ma sono quelli urbani, quasi artificiali, che ornano i nostri monumenti storici. Da notare inoltre che almeno nella quinta e nella sesta strofa alla ritmica degli attacchi corrisponde precisamente l'argomento, se si considera solamente celebrativo (quindi giambico) il riferimento al primo eletto re da l'Italia.
Fra storia e leggenda
La costruzione di una narrazione che attraversi il tempo non si limita ai due momenti principali, facilmente individuabili, ma si articola ulteriormente in due accenni, due aggettivi che individuano storicamente i ponti che attraversano l'Adige; infatti al v. 2 i romani ponti sono certamente i molti che attraversano l'Adige all'altezza di Verona, costruiti in epoca romana insieme alle strade che collegavano l'oltralpe con la pianura padana e che Carducci certamente conosceva3: il Ponte della Pietra su cui passava la via Claudia Augusta dal Po a passo di Resia e il Ponte Postumio già distrutto nel Medioevo, su cui passava la via Postumia e altri.
Nella seconda parte della poesia compare un altro ponte che serve a rievocare la fase comunale della storia di Verona: il merlato ponte scaligero (v. 17) rievoca l'intervento voluto da Cangrande II della Scala fra il 1354 e il 1375 sulla mole preesistente per costruire il Castello come lo vediamo noi e come lo vedeva Carducci, terminato con la costruzione del ponte sull'Adige4.
Attraverso il riferimento ai ponti romani e a quello scaligero si crea una successione temporale perfetta e graduale fra la romanità, l'alto medioevo, l’età dei comuni e l’età contemporanea, ricordata attraverso la menzione del 6° anniversario della morte di Vittorio Emanuele II (9 gennaio 1878).
Abbiamo già notato come questo anniversario sia celebrato con immagini di profonda tristezza e oscurità, e sappiamo quanto sia discusso l'avvicinamento di Carducci alla monarchia, probabilmente causato anche dalla necessità di sostenere la nuova Italia unita nelle forme che aveva assunto, oltre ovviamente alla teoria dell’eterno femminino regale, ma mi sembra che possa essere utile questa testimonianza ancora di Valgimigli (p. 121-2) a chiarire l'ambiente culturale a cui fa riferimento la poesia:
Per molti anni in Italia, fino almeno, possiamo dire, a tutto il penultimo decennio dell’Ottocento, il 9 gennaio fu schiettamente celebrato come giorno di lutto: chiuse le scuole e gli uffici, cortei con bandiere abbrunate e corone dovunque fosse un monumento, una lapide, un ricordo del morto re; merito di lui insigne aver restituito Roma all’Italia. Deriva da questi sentimenti, universalmente consentiti, certa insistenza di parole e di versi che a noi oggi, nella coerenza poetica di tutto l’insieme, può anche parere, e forse a torto, fuor di misura.
Dal lutto del tempo contemporaneo la riflessione di Carducci si sposta sul proprio canto e, attraverso questo, si proietta attivamente verso il tempo a venire. La rappresentazione dell'estremo futuro del nostro mondo come un piano desolato, abitato da bestie e rovine non è un tema nuovo per Carducci: l’immagine di un mondo naturale che resiste oltre la vita degli esseri umani sulla terra torna in altri luoghi delle Odi barbare, per esempio Su Monte Mario (vv. 41-48) un poco variata:
Fin che ristretta sotto l’equatore
Dietro i richiami del calor fuggente
L’estenuata prole abbia una sola
Femina, un uomo,
Che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti,
Tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
Vitrei te veggan su l’immane ghiaccia,
Sole, calare.
Qui il mondo finisce non in un deserto ma in una distesa di ghiaccio, e certamente i due testi sono stati avvicinati nell'edizione dell'89 in virtù di questo argomento comune, fortemente sentito in entrambi. Possiamo notare altri punti comuni ai due testi, sebbene meno evidenti: innanzitutto il tema della donna salvatrice, interlocutrice e ispiratrice che interessa la nostra poesia solo nella fase di elaborazione, come abbiamo già notato, mentre è chiaramente espressa in Su Monte Mario:
Lalage1, intatto a l'odorato boscoNella seconda parte della poesia compare un altro ponte che serve a rievocare la fase comunale della storia di Verona: il merlato ponte scaligero (v. 17) rievoca l'intervento voluto da Cangrande II della Scala fra il 1354 e il 1375 sulla mole preesistente per costruire il Castello come lo vediamo noi e come lo vedeva Carducci, terminato con la costruzione del ponte sull'Adige4.
Attraverso il riferimento ai ponti romani e a quello scaligero si crea una successione temporale perfetta e graduale fra la romanità, l'alto medioevo, l’età dei comuni e l’età contemporanea, ricordata attraverso la menzione del 6° anniversario della morte di Vittorio Emanuele II (9 gennaio 1878).
Abbiamo già notato come questo anniversario sia celebrato con immagini di profonda tristezza e oscurità, e sappiamo quanto sia discusso l'avvicinamento di Carducci alla monarchia, probabilmente causato anche dalla necessità di sostenere la nuova Italia unita nelle forme che aveva assunto, oltre ovviamente alla teoria dell’eterno femminino regale, ma mi sembra che possa essere utile questa testimonianza ancora di Valgimigli (p. 121-2) a chiarire l'ambiente culturale a cui fa riferimento la poesia:
Per molti anni in Italia, fino almeno, possiamo dire, a tutto il penultimo decennio dell’Ottocento, il 9 gennaio fu schiettamente celebrato come giorno di lutto: chiuse le scuole e gli uffici, cortei con bandiere abbrunate e corone dovunque fosse un monumento, una lapide, un ricordo del morto re; merito di lui insigne aver restituito Roma all’Italia. Deriva da questi sentimenti, universalmente consentiti, certa insistenza di parole e di versi che a noi oggi, nella coerenza poetica di tutto l’insieme, può anche parere, e forse a torto, fuor di misura.
Dal lutto del tempo contemporaneo la riflessione di Carducci si sposta sul proprio canto e, attraverso questo, si proietta attivamente verso il tempo a venire. La rappresentazione dell'estremo futuro del nostro mondo come un piano desolato, abitato da bestie e rovine non è un tema nuovo per Carducci: l’immagine di un mondo naturale che resiste oltre la vita degli esseri umani sulla terra torna in altri luoghi delle Odi barbare, per esempio Su Monte Mario (vv. 41-48) un poco variata:
Fin che ristretta sotto l’equatore
Dietro i richiami del calor fuggente
L’estenuata prole abbia una sola
Femina, un uomo,
Che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti,
Tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
Vitrei te veggan su l’immane ghiaccia,
Sole, calare.
Qui il mondo finisce non in un deserto ma in una distesa di ghiaccio, e certamente i due testi sono stati avvicinati nell'edizione dell'89 in virtù di questo argomento comune, fortemente sentito in entrambi. Possiamo notare altri punti comuni ai due testi, sebbene meno evidenti: innanzitutto il tema della donna salvatrice, interlocutrice e ispiratrice che interessa la nostra poesia solo nella fase di elaborazione, come abbiamo già notato, mentre è chiaramente espressa in Su Monte Mario:
Lascia l'alloro che si gloria eterno,
O a te passando per la bruna chioma
Splenda minore vv. 13-16
Il fiume che scorre, ricorda e canta rappresenta l'immagine fondante per il nostro testo mentre nell'altra poesia il Tevere compare solo di sfuggita e scorre muto per i grigi campi (vv. 3-4), mentre più importante è Roma, che si stende in basso.
Ma il legame più forte interno alla produzione poetica di Carducci è quello con La Leggenda di Teodorico, una ballata romantica che esce nelle Rime Nuove (1887), composta pochi anni prima e nello stesso periodo in cui Carducci stendeva Davanti il Castel Vecchio, cioè fra il dicembre 1884 e il 19-20 gennaio 1885; curiosamente, sono momenti in cui Carducci non si trova a Verona: le lettere ne testimoniano la presenza là per pochi giorni nel gennaio 1884, come abbiamo detto, e fra il giugno e il luglio 1884.
Le due composizioni mostrano come una stessa materia possa essere elaborata dal poeta in forme molto diverse, e nel nostro caso specifico è proprio la stratificazione storico-leggendaria delle vicende del re Teodorico in Italia a far germogliare risultati tanto diversi: da una parte il racconto dei fatti, ricco di suggestioni e indicazioni storicamente precise, dall'altra i ritmi della ballata popolare e colori della favola medievale.
Questa divaricazione di scelte si riflette nel lessico delle due poesie: nella Leggenda compaiono fin dall'inizio un cervo misterioso con corna d’oro e zoccoli di acciaio, accenni a un mondo fiabesco che si fa caccia infernale col progredire del racconto.
Il gridar d’un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
– Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l’età nostra.
Egli ha i piè d’acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d’òr. –
Fuor de l’acque diede un salto
Il vegliardo cacciator. La leggenda di Teodorico, vv. 25-32
Al contrario nelle prime strofe di Davanti il Castel Vecchio abbiamo i canti odinici, gli eruli, le donne amale: l'episodio narrato è la sconfitta di Odoacre ad opera di Teodorico presso Verona nel 489. Odoacre guidava gli eruli, un popolo di origine discussa ma probabilmente germanica, e, avendo deposto Romolo Augustolo nel 476 venne proclamato rex gentium dalle sue truppe; anche l'imperatore dell'impero romano d'Oriente, Zenone, riconobbe il suo dominio sulle terre d'Occidente: fu proprio Zenone, preoccupato dei recenti successi militari di Odoacre, che mobilitò Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti, il quale sconfisse il re germanico presso Verona nel 489 e, dopo un lungo assedio a Ravenna, lo costrinse a capitolare (493), e lo uccise.
Questa divaricazione di scelte si riflette nel lessico delle due poesie: nella Leggenda compaiono fin dall'inizio un cervo misterioso con corna d’oro e zoccoli di acciaio, accenni a un mondo fiabesco che si fa caccia infernale col progredire del racconto.
Il gridar d’un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
– Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l’età nostra.
Egli ha i piè d’acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d’òr. –
Fuor de l’acque diede un salto
Il vegliardo cacciator. La leggenda di Teodorico, vv. 25-32
Al contrario nelle prime strofe di Davanti il Castel Vecchio abbiamo i canti odinici, gli eruli, le donne amale: l'episodio narrato è la sconfitta di Odoacre ad opera di Teodorico presso Verona nel 489. Odoacre guidava gli eruli, un popolo di origine discussa ma probabilmente germanica, e, avendo deposto Romolo Augustolo nel 476 venne proclamato rex gentium dalle sue truppe; anche l'imperatore dell'impero romano d'Oriente, Zenone, riconobbe il suo dominio sulle terre d'Occidente: fu proprio Zenone, preoccupato dei recenti successi militari di Odoacre, che mobilitò Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti, il quale sconfisse il re germanico presso Verona nel 489 e, dopo un lungo assedio a Ravenna, lo costrinse a capitolare (493), e lo uccise.
Le donne gote sono dette amale perché gli amali dal III secolo erano la dinastia reale degli Ostrogoti e Odinici significa naturalmente di Odino: i germani infatti portarono con sé la loro religione, donne, bambini, la conquista dell'Italia settentrionale comportò la migrazione di un intero popolo; d’altra parte ciò che restava dell'italica plebe dimostrò da subito fedeltà a Teodorico, non opponendo resistenza. Da piccoli cenni e tocchi Carducci quindi vuole informarci della storia locale, anche se forse in un modo indiretto e che presuppone comunque ricerca e conoscenze da parte del lettore.
Da notare il fatto che, singolarmente, questo episodio non viene rappresentato attraverso il filtro di “quel certo tipo di «umanesimo laicale» (e diciam pure esplicitamente «anticlericale») che condiziona l'atteggiamento di Carducci nel confronto del Medio Evo”, indebolendone il pensiero critico-storiografico2 e il motivo mi sembra individuabile da una parte nel particolare amore che Carducci dimostra per questa vicenda umana e leggendaria, ma soprattutto per la relativa vicinanza di questa fase del Medioevo alle sue radici classiche e romane, piuttosto che all' “imbarbarimento” cattolico e cristiano. Inoltre sarebbe semplicistico ridurre il pensiero storico di Carducci ad un'opposizione sterile classicità- Medioevo e ignorare l'interesse e l'amore (di matrice romantica) per le Origini della cultura italiana, nelle sue strutture formali e popolari più volte espresse dal poeta e dal professore.
Sappiamo che Carducci visitava le località innanzitutto attraverso la loro storia, il loro passato, come testimoniano alcune parole di Croce:
Non c'era luogo nel quale gli accadesse di soggiornare, della cui storia non si impadronisse: la storia toscana dapprima, poi quella emiliana e romagnola e poi, secondo che gli capitasse, la storia e l'aneddotica piemontese o quella cadorina. Visitare un paese era, per lui, non già abbandonarsi alle impressioni e fantasie suscitate dal paesaggio e dall'osservazione diretta degli abitanti, ma cercarne le cronache e le memorie, e fare la conoscenza con gli eruditi locali, tornandone con un fascio di volumi e di opuscoli. Viaggiava, insomma, da letterato, al quale non sembra di poter vivere e godere appieno, non sembra di poter ascoltare e comprendere davvero, se non ha il sussidio dei libri1.
A parte gli spunti polemici del filosofo, sappiamo che anche durante i suoi soggiorni a Verona Carducci si interessò della storia locale (come abbiamo visto) e particolarmente alla basilica di San Zeno, dove Rossi (pp. 8-9) ci racconta che passasse parecchio tempo in compagnia del sagrestano, discutendo delle origini antiche dell'edificio e della città. Il poeta stesso ci informa che La leggenda di Teodorico è stata ispirata o stimolata dal portale di questa basilica nella nota che accompagna la poesia nelle Rime Nuove nella quale, dopo aver descritto il portale, aggiunge:
Il primo re degli ostrogoti in Italia è nell'antica poesia tedesca denominato Teodorico di Verona; ed entra nei Nibelunghi e da ultimo nei miti odinici del cacciatore demoniaco. La leggenda cattolica italiana, certo per quella breve tirannia che macchiò la fine del regno di lui, lo fa portato via dal diavolo e gittato dalle anime di Simmaco e del pontefice Giovanni nelle caldaie di Lipari. I miei versi raccolgono, o, come dicevano i commediografi romani, contaminano le due leggende, la germanica odinica, l'italiana cattolica.
Da notare il fatto che, singolarmente, questo episodio non viene rappresentato attraverso il filtro di “quel certo tipo di «umanesimo laicale» (e diciam pure esplicitamente «anticlericale») che condiziona l'atteggiamento di Carducci nel confronto del Medio Evo”, indebolendone il pensiero critico-storiografico2 e il motivo mi sembra individuabile da una parte nel particolare amore che Carducci dimostra per questa vicenda umana e leggendaria, ma soprattutto per la relativa vicinanza di questa fase del Medioevo alle sue radici classiche e romane, piuttosto che all' “imbarbarimento” cattolico e cristiano. Inoltre sarebbe semplicistico ridurre il pensiero storico di Carducci ad un'opposizione sterile classicità- Medioevo e ignorare l'interesse e l'amore (di matrice romantica) per le Origini della cultura italiana, nelle sue strutture formali e popolari più volte espresse dal poeta e dal professore.
Sappiamo che Carducci visitava le località innanzitutto attraverso la loro storia, il loro passato, come testimoniano alcune parole di Croce:
Non c'era luogo nel quale gli accadesse di soggiornare, della cui storia non si impadronisse: la storia toscana dapprima, poi quella emiliana e romagnola e poi, secondo che gli capitasse, la storia e l'aneddotica piemontese o quella cadorina. Visitare un paese era, per lui, non già abbandonarsi alle impressioni e fantasie suscitate dal paesaggio e dall'osservazione diretta degli abitanti, ma cercarne le cronache e le memorie, e fare la conoscenza con gli eruditi locali, tornandone con un fascio di volumi e di opuscoli. Viaggiava, insomma, da letterato, al quale non sembra di poter vivere e godere appieno, non sembra di poter ascoltare e comprendere davvero, se non ha il sussidio dei libri1.
A parte gli spunti polemici del filosofo, sappiamo che anche durante i suoi soggiorni a Verona Carducci si interessò della storia locale (come abbiamo visto) e particolarmente alla basilica di San Zeno, dove Rossi (pp. 8-9) ci racconta che passasse parecchio tempo in compagnia del sagrestano, discutendo delle origini antiche dell'edificio e della città. Il poeta stesso ci informa che La leggenda di Teodorico è stata ispirata o stimolata dal portale di questa basilica nella nota che accompagna la poesia nelle Rime Nuove nella quale, dopo aver descritto il portale, aggiunge:
Il primo re degli ostrogoti in Italia è nell'antica poesia tedesca denominato Teodorico di Verona; ed entra nei Nibelunghi e da ultimo nei miti odinici del cacciatore demoniaco. La leggenda cattolica italiana, certo per quella breve tirannia che macchiò la fine del regno di lui, lo fa portato via dal diavolo e gittato dalle anime di Simmaco e del pontefice Giovanni nelle caldaie di Lipari. I miei versi raccolgono, o, come dicevano i commediografi romani, contaminano le due leggende, la germanica odinica, l'italiana cattolica.
Ecco quindi come i frutti degli studi eruditi nutrano profondamente la poesia, come ritorni trasfigurato un concetto scientifico della storia e l'amore per i miti e le leggende. In entrambi gli ambiti il paesaggio che suscita la poesia appare filtrato dall’ottica del poeta, che fa rivivere i fantasmi dei tempi passati, le immagini della sua memoria e dei suoi studi. Nel nostro caso specifico sono i colli e soprattutto il fiume che servono a rievocare il passato, a farlo resuscitare, ed è evidente dal confronto fra i due testi che si tratta sempre dello stesso luogo, amato da Carducci per il sole e il verde che lo caratterizzano, come emerge confrontando due strofe da La Leggenda di Teodorico:
Su ‘l castello di Verona
Batte il sole a Mezzogiorno,
da la Chiusa al pian rintrona
solitario un suon di corno,
mormorando per l’aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Teodorico
vecchio e triste al bagno sta.
[…]
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu. La leggenda di Teodorico, vv. 1-8, 17-24
Con la prima strofa e la terza di Davanti Castel Vecchio, dove torna l’aggettivo verde, sia esso da riferirsi alle acque dell’Adige (Saccenti p. 807) o piuttosto alle rigogliose vallate che attraversa.
Il paesaggio è ben riconoscibile anche per le colline e le torri che lo caratterizzano, infatti sono accennate anche in Sirmione per esempio i vv. 21-2 Garda [...] la ròcca sua fosca, v. 58 la torre scaligera, in Da Desenzano i merli (v. 15) che parlano con il vento ecc.
D'altra parte un paesaggio turrito e autunnale torna nelle Barbare anche in Nella piazza di San Petronio che alla nostra poesia è vicino per consonanza di molti movimenti, come il ricordo di tempi passati, i merli cui tant'ala di secolo lambe e non ultimo la riflessione sulla musa fuggente della poesia di Carducci, che chiude la poesia.
Un ultimo accostamento: è di ambientazione lombarda e medievale anche il frammento superstite della Canzone di Legnano (Il Parlamento), che può ricordarci Davanti il Castel Vecchio solo per l'immagine della plebe supplice che tende la croce alla moglie di Federico Barbarossa invasore implorando pietà:
[ricordate quando] Scorgemmo da la via l'imperatrice
Da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli
Noi gittammo le croci a lei gridando
- O bionda, o bella imperatrice, o fida,
O pia, mercé, mercé di nostre donne! - Il Parlamento, vv. 83-87Su ‘l castello di Verona
Batte il sole a Mezzogiorno,
da la Chiusa al pian rintrona
solitario un suon di corno,
mormorando per l’aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Teodorico
vecchio e triste al bagno sta.
[…]
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu. La leggenda di Teodorico, vv. 1-8, 17-24
Con la prima strofa e la terza di Davanti Castel Vecchio, dove torna l’aggettivo verde, sia esso da riferirsi alle acque dell’Adige (Saccenti p. 807) o piuttosto alle rigogliose vallate che attraversa.
Il paesaggio è ben riconoscibile anche per le colline e le torri che lo caratterizzano, infatti sono accennate anche in Sirmione per esempio i vv. 21-2 Garda [...] la ròcca sua fosca, v. 58 la torre scaligera, in Da Desenzano i merli (v. 15) che parlano con il vento ecc.
D'altra parte un paesaggio turrito e autunnale torna nelle Barbare anche in Nella piazza di San Petronio che alla nostra poesia è vicino per consonanza di molti movimenti, come il ricordo di tempi passati, i merli cui tant'ala di secolo lambe e non ultimo la riflessione sulla musa fuggente della poesia di Carducci, che chiude la poesia.
Un ultimo accostamento: è di ambientazione lombarda e medievale anche il frammento superstite della Canzone di Legnano (Il Parlamento), che può ricordarci Davanti il Castel Vecchio solo per l'immagine della plebe supplice che tende la croce alla moglie di Federico Barbarossa invasore implorando pietà:
[ricordate quando] Scorgemmo da la via l'imperatrice
Da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli
Noi gittammo le croci a lei gridando
- O bionda, o bella imperatrice, o fida,
Metapoesia e autocommento
Abbiamo accennato a come il tema storico e celebrativo si dilati verso il tempo futuro attraverso la riflessione sulla propria poetica, sul lavoro della poesia. Si tratta di movenze e di un tema tipico della poesia carducciana, che torna in momenti diversi della sua produzione e che qui si mostra sia nella forma dell'autocommento che nella metapoesia.
Innanzitutto in picciol verso raccoglie i secoli. È effettivamente un argomento caro a Carducci sia nei modi che abbiamo appena mostrato ma soprattutto nel senso che attraverso la poesia Carducci si ricongiunge idealmente coi classici antichi e moderni della poesia, superando la distanza del tempo. Ma mi sembra che possa essere interessante anche notare come anche nella pratica scrittoria vera e propria, di fronte a grandiosi paesaggi o antiche rovine, Carducci sia in grado di cedere alla suggestione e raccogliere in pochi versi cavalcate di secoli, vertigini storiche; porto un solo esempio da Su l’Adda (vv. 33-6) ma moltissimi se ne potrebbero trovare anche solo nelle Odi barbare:
Ov’è or l’aquila di Pompeo? L’aquila
Ov’è de l’ispido sir di Soavia
E del pallido còrso?
Tu corri, o Addua cerulo.
In quel verso si rivela quindi una visione limpida del proprio rapporto con la storia, uno dei tanti esempi dell’auto-commento carducciano; nella stessa linea di riflessione si situa il verso successivo, che invece riflette sulla pratica poetica, sulla fatica e l'emozione di scrivere: il cuore colpito da un'immagine, da un pensiero insegue la strofe che sorge e timida trema, ancora incerta di sé; proprio come la scrittura di Carducci, che alterna momenti di stesura immediata e sicura a ripensamenti e indecisioni. Ce lo testimonia il poeta stesso anche in Preludio, per esempio:
A me la strofe vigile, balzante
Co ‘l plauso e ‘l piede ritmico ne’ cori:
Per l’ala a volo io còlgola, si volge
Ella e repugna vv. 5-8
oppure in Nella piazza di San Petronio (vv. 19-20):
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
Un desiderio vano de la bellezza antica
Fra l'altro abbiamo già visto come anche i versi 27-28 nascano da un'ispirazione femminile, dagli occhi sereni di una vera musa: dovrebbe trattarsi della sua ospite, Dafne Gargiolli, ispiratrice di molte altre poesie e poeta lei stessa.
L'ultimo verso
I tedi insonni dell'infinito é una delle immagini più suggestive e riuscite della poesia, in parte grazie alla suggestiva posizione alla fine della strofa che chiude l'intera poesia, in parte per la rete di echi che suscita; infatti possiamo considerarlo con Valgimigli uno dei più carducciani versi del Carducci (p. 122) e ricordare la chiusa di Alla stazione in una mattina d'autunno:
Io credo che solo, che eterno,
Che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
Meglio quest'ombra, questa caligine:
Io voglio io voglio adagiarmi
In un tedio che duri infinito. vv. 55-60
ma possiamo anche avvicinargli, come fanno Rossi (p. 115-6) e Valgimigli stesso, similitudini ed echi leopardiani da A un vincitore nel pallone o dalla Ginestra:
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio; vv. 17-23
o ancora dal Bruto Minore, che Carducci ben conosceva fin da giovanissimo:
E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando ne' danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.
Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parteInnanzitutto in picciol verso raccoglie i secoli. È effettivamente un argomento caro a Carducci sia nei modi che abbiamo appena mostrato ma soprattutto nel senso che attraverso la poesia Carducci si ricongiunge idealmente coi classici antichi e moderni della poesia, superando la distanza del tempo. Ma mi sembra che possa essere interessante anche notare come anche nella pratica scrittoria vera e propria, di fronte a grandiosi paesaggi o antiche rovine, Carducci sia in grado di cedere alla suggestione e raccogliere in pochi versi cavalcate di secoli, vertigini storiche; porto un solo esempio da Su l’Adda (vv. 33-6) ma moltissimi se ne potrebbero trovare anche solo nelle Odi barbare:
Ov’è or l’aquila di Pompeo? L’aquila
Ov’è de l’ispido sir di Soavia
E del pallido còrso?
Tu corri, o Addua cerulo.
In quel verso si rivela quindi una visione limpida del proprio rapporto con la storia, uno dei tanti esempi dell’auto-commento carducciano; nella stessa linea di riflessione si situa il verso successivo, che invece riflette sulla pratica poetica, sulla fatica e l'emozione di scrivere: il cuore colpito da un'immagine, da un pensiero insegue la strofe che sorge e timida trema, ancora incerta di sé; proprio come la scrittura di Carducci, che alterna momenti di stesura immediata e sicura a ripensamenti e indecisioni. Ce lo testimonia il poeta stesso anche in Preludio, per esempio:
A me la strofe vigile, balzante
Co ‘l plauso e ‘l piede ritmico ne’ cori:
Per l’ala a volo io còlgola, si volge
Ella e repugna vv. 5-8
oppure in Nella piazza di San Petronio (vv. 19-20):
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
Un desiderio vano de la bellezza antica
Fra l'altro abbiamo già visto come anche i versi 27-28 nascano da un'ispirazione femminile, dagli occhi sereni di una vera musa: dovrebbe trattarsi della sua ospite, Dafne Gargiolli, ispiratrice di molte altre poesie e poeta lei stessa.
L'ultimo verso
I tedi insonni dell'infinito é una delle immagini più suggestive e riuscite della poesia, in parte grazie alla suggestiva posizione alla fine della strofa che chiude l'intera poesia, in parte per la rete di echi che suscita; infatti possiamo considerarlo con Valgimigli uno dei più carducciani versi del Carducci (p. 122) e ricordare la chiusa di Alla stazione in una mattina d'autunno:
Io credo che solo, che eterno,
Che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
Meglio quest'ombra, questa caligine:
Io voglio io voglio adagiarmi
In un tedio che duri infinito. vv. 55-60
ma possiamo anche avvicinargli, come fanno Rossi (p. 115-6) e Valgimigli stesso, similitudini ed echi leopardiani da A un vincitore nel pallone o dalla Ginestra:
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio; vv. 17-23
o ancora dal Bruto Minore, che Carducci ben conosceva fin da giovanissimo:
E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando ne' danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.
Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura. vv. 76-105
Non mi sembra che le due proposte siano necessariamente in opposizione, basta riconoscere una volta di più in Carducci la capacità di assorbire le proprie fonti e riproporle dopo averle trasformate in una parte profonda della propria poetica.
Il fiume del tempo
L’immagine del fiume, dell’acqua che scorre e che guarda passare il tempo ritorna davvero frequentissima in Carducci, quasi ogni volta che si parli di acque correnti, e spesso è accompagnata dall'immagine del canto imperituro delle acque:
Te la vergine Dora, che sa le sorgive de’ fonti
E sa de le genti le cune,
Cerula irriga, e canta; gli arcani ella canta de l’alpi,
E i carmi de’ popoli e l’armi. Courmayeur, vv. 9-12
[...] e tu fra l'ombre, tu fatali canta
Carmi, o Clitumno.
O testimone di tre imperi, dinne
Come il grave umbro ne' duelli atroce
Cesse a l'astato velite e la forte
Etruria crebbe Alle fonti del Clitumno, vv. 39-44
Ma l'intera poesia è pervasa della stessa idea, mentre per citare un esempio fuori dalle Odi barbare:
Deh, fin che Piave pe' verdi baratri
Ne la perenne fuga de' secoli
Divalli a percuotere l'Adria
Co' ruderi de le nere selve Cadore, vv 29-32, Rime e ritmi
Si potrebbero portare molti esempi per molti fiumi, più difficilmente a proposito del Tevere (nelle Odi barbare mi pare solo: Ragioni metriche, vv 1-2 e Su Monte Mario per quello che ho già detto all'inizio), forse perché il fiume di Roma è più lento, meno “canterino”, forse perché appare sempre circondato da vestigia, pietre, colli che più forti portano impresse le immagini e i ricordi della grandezza di Roma, che dai romani furono innalzate e più profondamente possono cantare quella bellezza.
La presenza purificante e ispiratrice dell'acqua che scorre caratterizza anche le tre liriche che precedono Davanti il Castel Vecchio di Verona, mi sembra in modo determinante, quindi passo a esaminare le relazioni fra la nostra poesia e quelle.
Nelle TB, come ho già detto, Davanti il Castel Vecchio di Verona si trovava in XI posizione, subito dopo Su Monte Mario e seguita dall'ode Da Desenzano; anche nell'edizione definitiva è in posizione centrale (XVI del primo libro), ma Su Monte Mario è lontana (XLII posizione) e la nostra ode è invece preceduta da una serie di poesie lombarde (Su l'Adda, Da Desenzano, Sirmione) e seguita da Per la morte di Napoleone Eugenio; con quest'ultimo accostamento mi pare che Carducci volesse operare uno stacco, una piccola separazione interna al I libro, perché i due testi non presentano evidenti consonanze di tema e certamente il metro non è un criterio di accostamento, tanto più che la strofe alcaica di Per la morte di Napoleone Eugenio presenta solo saltuariamente il decasillabo reso con due quinari che abbiamo visto essere particolarità della nostra ode. Certamente, in entrambe è trattato il tema della morte di personaggi celebri, regali, ma in prospettiva diversa, come diverso valore assume la poesia nei confronti di questa morte; certo è che con Per la morte di Napoleone Eugenio si apre una serie di poesie variamente celebrative che prosegue quasi fino alla fine del I libro.
Al contrario, le quattro poesie lombarde si presentano molto affini dal punto di vista della materia poetica, tanto che mi sembra di poter intuire una sorta di percorso acquatico che parte con il fiume Adda, prosegue sul lago di Garda e termina con l'Adige, attraversando questa zona così ricca di rimembranze letterarie e storiche.
Questi testi non sono legati dal punto di vista metrico (si tratta, nell'ordine, di una Asclepiadea III, di strofe tetrastiche di trimetri giambici, di versi pitiambici primi e di strofe alcaiche) e sono stati scritti in periodi diversi fra loro: Su l'Adda 1873, Da Desenzano 1883, Sirmione 1881, Davanti il Castel Vecchio di Verona 1884; anche l'occasione della scrittura varia molto: la prima e la terza poesia infatti rimandano a incontri con Lidia, che passò qualche tempo a Verona con il marito fra il 1875 e il 1876, la seconda invece fu scritta in un periodo in cui Carducci era commissario d'esami in un liceo a Desenzano del Garda e l'ultima infine da una visita a Verona mentre era ospite dei coniugi Gargiolli.
La zona geografica invece è circoscritta fra l’Adda (Lodi), l’Adige e il lago di Garda, e in tutte le poesie alla descrizione della natura florida e brillante di quei luoghi fa seguito l'emergere dalle acque e dalle colline dei fantasmi del passato che le hanno attraversate, che ci ricordano la nostra piccolezza rispetto a quel passato e soprattutto la piccolezza dell'uomo rispetto all'eternità indifferente della natura e dei secoli.
In Sull'Adda il memore ponte per primo e poi le mura dirute ricordano al poeta gli itali incendii delle lotte fra Milano e i lodigesi, e il pensiero passa alla battaglia fra soldati austriaci e napoleonici sul (ora) dubbio ponte per culminare nella vertiginosa sintesi:
Ov’è or l’aquila di Pompeo? L’aquila
Ov’è de l’ispido sir di Soavia
E del pallido còrso?
Tu corri, o Addua cerulo.
Mi sembra che, oltre al tema storico, si possa istituire qualche legame in più fra Su l’Adda e Davanti il Castel Vecchio; infatti se dividiamo in tre parti anche la prima poesia, in corrispondenza con la ripetizione della strofa Corri, tra' rosei fuochi del vespero, / corri Addua cerulo: Lidia sul placido / fiume, e il tenero amore, / al sole occiduo naviga (che ritorna quasi identica ai vv. 1-4, 37-40, 57-60) possiamo notare dei sia pur blandi parallelismi: nella prima parte (vv. 1-36) vediamo susseguirsi immagini di battaglie passate, antiche o recenti, mentre la seconda parte (vv. 41-56) è incentrata sul tempo presente, sul paesaggio che riflette ridente l'amore del poeta e infine la terza parte (vv. 61-72) osserva la caduta del sole al tramonto e si chiede dove si perderanno nel futuro l'anima e il mutuo amore, ma presto si abbandona al guardo languido di Lidia. I tre momenti passato presente e futuro si presentano in modo ben diverso rispetto a Davanti il Castel Vecchio, ma nello stesso ordine e suscitati da un simile paesaggio fluviale; nella lirica più antica si può ancora gioire della presenza di Lidia e ridere del mutuo amore, mentre undici anni dopo resta il compianto per il re morto e per un inverno dell'anima che comincia a far sentire le sue fitte, e il futuro non è che un malinconico deserto.
Non mi pare che si possa sostenere una costruzione di Davanti il Castel Vecchio cosciente di questa similitudine, piuttosto l'identificazione sarebbe avvenuta successivamente, durante l'ordinamento definitivo delle liriche e in quel caso ne avrebbe determinato il posizionamento non contiguo ma nemmeno eccessivamente distanziato.
Riguardo alla lirica successiva, Da Desenzano, nota Valgimigli la cultura storica che domina tutta l'ode (p. 104): come di consueto Carducci era entrato in contatto con un erudito del luogo2 che forse gli mostrò ritrovamenti e reperti delle antiche civiltà che popolavano il lago e che fecero emergere dall'immaginazione di Carducci tutti gli abitanti di quelle sponde:
Essi che queste amene rive tennero
Te, come noi, bel sole, un dì goderono,
O ti gittasser belve umane un fremito
Da le lacustri palafitte, o agili
Veneti a l'onda le cavalle dessero
Trepida e fredda nel mattino roseo,
O co 'l tirreno lituo segnassero
Nel mezzogiorno le pietrose acropoli.
Gino, ove inteso a le vittorie retiche
O da le dacie glorïoso il milite
In vigil ozio l'aquile romulee
Su 'l lago affisse ricantando Cesare,
Ivi in fremente selva Desiderio
Agitò a caccia poi cignali e daini,
Fermo il pensiero a la corona ferrea
Fulgida in Roma per la via de' Cesari. vv. 25-40
Dopo questi emerge dal lago il giambo di Catullo rapido e i suoi gemiti d'amore si confondono con quelli ben diversi delle monache lombarde che abitarono le sponde a seguito della regina Ansa. Anche qui nasce spontaneo, insistente il pensiero del futuro, e il confronto con gli antichi:
[...] «Di qual secolo
– Dimanderanno – di qual triste secolo
A noi venite, pallida progenie?
A voi tra' cigli torva cura infoscasi
E da l'augusto petto il cuore fumiga.
Noi ne la vita esercitammo il muscolo,
E discendemmo grandi ombre tra gl'inferi». vv. 54-60
Motivo di varianza rispetto alle precedenti è il sereno, oraziano invito alla vita, all'amicizia e al vino che circonda in questa poesia le reminiscenze storiche e allontana l'ansia per il futuro.
Sirmione si presenta come una luminosa descrizione del lago, accompagnata dalla presenza di Lalage, Dafne Gargiolli, e certamente dal ricordo di Lidia. Con entrambe Carducci aveva visitato spesso il lago nel 1875-6 e a Lidia aveva inviato i primi cinque distici3, ma la poesia venne terminata ed edita solo dopo la morte di lei, nel luglio 1881.
Qui la presenza di Catullo è preponderante, annulla ogni ricordo storico e riempie l’intero lago con i multivoli ardori di Lesbia; Lalage deve ingraziarsi le Muse scacciate dall'Amore con tre rami di lauro e di mirto così da poter sentire la voce di Virgilio e vedere affacciato alla torre scaligera un grande severo, Dante.
Il legame con la poesia precedente è esplicito, il lago si presenta luminoso, azzurro, circondato dai monti; nel gruppo, però, Sirmione è la meno consona, la più descrittiva e lirica, abbandonata ma Carducci non rinuncia ad una piccola parentesi storica:
Garda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
Sovra lo specchio liquido,
Cantando una saga d'antiche cittadi sepolte
E di regine barbare. vv. 21-24
Escluso questo accenno, la posizione di Sirmione mi pare possa essere spiegata per un'esigenza di alternanza e per, ma sarebbe poco da solo, la figura di Lalage, musa dagli occhi che lunghe intentano guerre e che inizialmente ispirava, come abbiamo visto, anche Davanti il Castel Vecchio.
Insomma, sembra che le quattro poesie non siano vicine solo grazie all'ambientazione, ma anche per una comunanza di ispirazione e di fondamento ideologico che Carducci elabora anche in momenti diversi: la terra, la natura ci ricordano la grandezza degli antichi, sta a noi esserne degni; ma bisogna anche essere coscienti della nostra piccolezza in quanto esseri umani rispetto all'eternità della natura.
In particolare Sull'Adda e Davanti il Castel Vecchio a causa dell'eccessiva somiglianza della struttura vengono distanziate con le due liriche del lago di Garda, in cui la poesia, gli amori e le amicizie si mostrano in tutto il loro splendore e fragilità nella cornice eterna della natura.
Te la vergine Dora, che sa le sorgive de’ fonti
E sa de le genti le cune,
Cerula irriga, e canta; gli arcani ella canta de l’alpi,
E i carmi de’ popoli e l’armi. Courmayeur, vv. 9-12
[...] e tu fra l'ombre, tu fatali canta
Carmi, o Clitumno.
O testimone di tre imperi, dinne
Come il grave umbro ne' duelli atroce
Cesse a l'astato velite e la forte
Etruria crebbe Alle fonti del Clitumno, vv. 39-44
Ma l'intera poesia è pervasa della stessa idea, mentre per citare un esempio fuori dalle Odi barbare:
Deh, fin che Piave pe' verdi baratri
Ne la perenne fuga de' secoli
Divalli a percuotere l'Adria
Co' ruderi de le nere selve Cadore, vv 29-32, Rime e ritmi
Si potrebbero portare molti esempi per molti fiumi, più difficilmente a proposito del Tevere (nelle Odi barbare mi pare solo: Ragioni metriche, vv 1-2 e Su Monte Mario per quello che ho già detto all'inizio), forse perché il fiume di Roma è più lento, meno “canterino”, forse perché appare sempre circondato da vestigia, pietre, colli che più forti portano impresse le immagini e i ricordi della grandezza di Roma, che dai romani furono innalzate e più profondamente possono cantare quella bellezza.
La presenza purificante e ispiratrice dell'acqua che scorre caratterizza anche le tre liriche che precedono Davanti il Castel Vecchio di Verona, mi sembra in modo determinante, quindi passo a esaminare le relazioni fra la nostra poesia e quelle.
Nelle TB, come ho già detto, Davanti il Castel Vecchio di Verona si trovava in XI posizione, subito dopo Su Monte Mario e seguita dall'ode Da Desenzano; anche nell'edizione definitiva è in posizione centrale (XVI del primo libro), ma Su Monte Mario è lontana (XLII posizione) e la nostra ode è invece preceduta da una serie di poesie lombarde (Su l'Adda, Da Desenzano, Sirmione) e seguita da Per la morte di Napoleone Eugenio; con quest'ultimo accostamento mi pare che Carducci volesse operare uno stacco, una piccola separazione interna al I libro, perché i due testi non presentano evidenti consonanze di tema e certamente il metro non è un criterio di accostamento, tanto più che la strofe alcaica di Per la morte di Napoleone Eugenio presenta solo saltuariamente il decasillabo reso con due quinari che abbiamo visto essere particolarità della nostra ode. Certamente, in entrambe è trattato il tema della morte di personaggi celebri, regali, ma in prospettiva diversa, come diverso valore assume la poesia nei confronti di questa morte; certo è che con Per la morte di Napoleone Eugenio si apre una serie di poesie variamente celebrative che prosegue quasi fino alla fine del I libro.
Al contrario, le quattro poesie lombarde si presentano molto affini dal punto di vista della materia poetica, tanto che mi sembra di poter intuire una sorta di percorso acquatico che parte con il fiume Adda, prosegue sul lago di Garda e termina con l'Adige, attraversando questa zona così ricca di rimembranze letterarie e storiche.
Questi testi non sono legati dal punto di vista metrico (si tratta, nell'ordine, di una Asclepiadea III, di strofe tetrastiche di trimetri giambici, di versi pitiambici primi e di strofe alcaiche) e sono stati scritti in periodi diversi fra loro: Su l'Adda 1873, Da Desenzano 1883, Sirmione 1881, Davanti il Castel Vecchio di Verona 1884; anche l'occasione della scrittura varia molto: la prima e la terza poesia infatti rimandano a incontri con Lidia, che passò qualche tempo a Verona con il marito fra il 1875 e il 1876, la seconda invece fu scritta in un periodo in cui Carducci era commissario d'esami in un liceo a Desenzano del Garda e l'ultima infine da una visita a Verona mentre era ospite dei coniugi Gargiolli.
La zona geografica invece è circoscritta fra l’Adda (Lodi), l’Adige e il lago di Garda, e in tutte le poesie alla descrizione della natura florida e brillante di quei luoghi fa seguito l'emergere dalle acque e dalle colline dei fantasmi del passato che le hanno attraversate, che ci ricordano la nostra piccolezza rispetto a quel passato e soprattutto la piccolezza dell'uomo rispetto all'eternità indifferente della natura e dei secoli.
In Sull'Adda il memore ponte per primo e poi le mura dirute ricordano al poeta gli itali incendii delle lotte fra Milano e i lodigesi, e il pensiero passa alla battaglia fra soldati austriaci e napoleonici sul (ora) dubbio ponte per culminare nella vertiginosa sintesi:
Ov’è or l’aquila di Pompeo? L’aquila
Ov’è de l’ispido sir di Soavia
E del pallido còrso?
Tu corri, o Addua cerulo.
Mi sembra che, oltre al tema storico, si possa istituire qualche legame in più fra Su l’Adda e Davanti il Castel Vecchio; infatti se dividiamo in tre parti anche la prima poesia, in corrispondenza con la ripetizione della strofa Corri, tra' rosei fuochi del vespero, / corri Addua cerulo: Lidia sul placido / fiume, e il tenero amore, / al sole occiduo naviga (che ritorna quasi identica ai vv. 1-4, 37-40, 57-60) possiamo notare dei sia pur blandi parallelismi: nella prima parte (vv. 1-36) vediamo susseguirsi immagini di battaglie passate, antiche o recenti, mentre la seconda parte (vv. 41-56) è incentrata sul tempo presente, sul paesaggio che riflette ridente l'amore del poeta e infine la terza parte (vv. 61-72) osserva la caduta del sole al tramonto e si chiede dove si perderanno nel futuro l'anima e il mutuo amore, ma presto si abbandona al guardo languido di Lidia. I tre momenti passato presente e futuro si presentano in modo ben diverso rispetto a Davanti il Castel Vecchio, ma nello stesso ordine e suscitati da un simile paesaggio fluviale; nella lirica più antica si può ancora gioire della presenza di Lidia e ridere del mutuo amore, mentre undici anni dopo resta il compianto per il re morto e per un inverno dell'anima che comincia a far sentire le sue fitte, e il futuro non è che un malinconico deserto.
Non mi pare che si possa sostenere una costruzione di Davanti il Castel Vecchio cosciente di questa similitudine, piuttosto l'identificazione sarebbe avvenuta successivamente, durante l'ordinamento definitivo delle liriche e in quel caso ne avrebbe determinato il posizionamento non contiguo ma nemmeno eccessivamente distanziato.
Riguardo alla lirica successiva, Da Desenzano, nota Valgimigli la cultura storica che domina tutta l'ode (p. 104): come di consueto Carducci era entrato in contatto con un erudito del luogo2 che forse gli mostrò ritrovamenti e reperti delle antiche civiltà che popolavano il lago e che fecero emergere dall'immaginazione di Carducci tutti gli abitanti di quelle sponde:
Essi che queste amene rive tennero
Te, come noi, bel sole, un dì goderono,
O ti gittasser belve umane un fremito
Da le lacustri palafitte, o agili
Veneti a l'onda le cavalle dessero
Trepida e fredda nel mattino roseo,
O co 'l tirreno lituo segnassero
Nel mezzogiorno le pietrose acropoli.
Gino, ove inteso a le vittorie retiche
O da le dacie glorïoso il milite
In vigil ozio l'aquile romulee
Su 'l lago affisse ricantando Cesare,
Ivi in fremente selva Desiderio
Agitò a caccia poi cignali e daini,
Fermo il pensiero a la corona ferrea
Fulgida in Roma per la via de' Cesari. vv. 25-40
Dopo questi emerge dal lago il giambo di Catullo rapido e i suoi gemiti d'amore si confondono con quelli ben diversi delle monache lombarde che abitarono le sponde a seguito della regina Ansa. Anche qui nasce spontaneo, insistente il pensiero del futuro, e il confronto con gli antichi:
[...] «Di qual secolo
– Dimanderanno – di qual triste secolo
A noi venite, pallida progenie?
A voi tra' cigli torva cura infoscasi
E da l'augusto petto il cuore fumiga.
Noi ne la vita esercitammo il muscolo,
E discendemmo grandi ombre tra gl'inferi». vv. 54-60
Motivo di varianza rispetto alle precedenti è il sereno, oraziano invito alla vita, all'amicizia e al vino che circonda in questa poesia le reminiscenze storiche e allontana l'ansia per il futuro.
Sirmione si presenta come una luminosa descrizione del lago, accompagnata dalla presenza di Lalage, Dafne Gargiolli, e certamente dal ricordo di Lidia. Con entrambe Carducci aveva visitato spesso il lago nel 1875-6 e a Lidia aveva inviato i primi cinque distici3, ma la poesia venne terminata ed edita solo dopo la morte di lei, nel luglio 1881.
Qui la presenza di Catullo è preponderante, annulla ogni ricordo storico e riempie l’intero lago con i multivoli ardori di Lesbia; Lalage deve ingraziarsi le Muse scacciate dall'Amore con tre rami di lauro e di mirto così da poter sentire la voce di Virgilio e vedere affacciato alla torre scaligera un grande severo, Dante.
Il legame con la poesia precedente è esplicito, il lago si presenta luminoso, azzurro, circondato dai monti; nel gruppo, però, Sirmione è la meno consona, la più descrittiva e lirica, abbandonata ma Carducci non rinuncia ad una piccola parentesi storica:
Garda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
Sovra lo specchio liquido,
Cantando una saga d'antiche cittadi sepolte
E di regine barbare. vv. 21-24
Escluso questo accenno, la posizione di Sirmione mi pare possa essere spiegata per un'esigenza di alternanza e per, ma sarebbe poco da solo, la figura di Lalage, musa dagli occhi che lunghe intentano guerre e che inizialmente ispirava, come abbiamo visto, anche Davanti il Castel Vecchio.
Insomma, sembra che le quattro poesie non siano vicine solo grazie all'ambientazione, ma anche per una comunanza di ispirazione e di fondamento ideologico che Carducci elabora anche in momenti diversi: la terra, la natura ci ricordano la grandezza degli antichi, sta a noi esserne degni; ma bisogna anche essere coscienti della nostra piccolezza in quanto esseri umani rispetto all'eternità della natura.
In particolare Sull'Adda e Davanti il Castel Vecchio a causa dell'eccessiva somiglianza della struttura vengono distanziate con le due liriche del lago di Garda, in cui la poesia, gli amori e le amicizie si mostrano in tutto il loro splendore e fragilità nella cornice eterna della natura.
Analisi linguistica e Conclusioni
Dal punto di vista linguistico la poesia non emerge: si mantiene su un piano piuttosto medio, senza picchi. Ho già fatto notare il linguaggio scientificamente storico della seconda e terza strofa e posso segnalare qualche latinismo: cesse per cedette (v. 6) verno e un termine fortemente letterario: còlubro per serpente; ma non mi sembra che nell'insieme il linguaggio sia usato in modo particolarmente impegnato o pregnante, eccetto forse le strofe che descrivono il fiume.
Anche sotto il profilo delle figure retoriche si possono notare numerose inversioni sostantivo-aggettivo ma oltre a queste il testo si presenta un poco scarno, le immagini sono tutte limpide e lineari.
Il tessuto fonico esalta soprattutto i luoghi in cui si parla del fiume, come al v. 3 l'insistenza su [l] e in generale il ritorno del verbo fonosimbolico mormorare (v. 1, 16); da notare anche al v. 28 l'insistenza su [s] a sottolineare l'immagine della strofe ma in generale mi pare più presente e diffuso un impegno ad arricchire col ritmo il senso dei singoli versi, per es. gli ultimi due, ed esemplare mi pare il v. 25 con un attacco che sottolinea fortemente l'anch'io per poi distendersi quietamente negli accenti su fiume, canto e cantico, senza senso di ripetizione.
Nel complesso Davanti il Castel Vecchio di Verona appare come una poesia fra le più semplici, breve, non particolarmente impegnata e per questo poco studiata dalla critica. Mi sembra però che sul piano del significato acquisti molto dal confronto con le liriche vicine e che nel suo tono medio, addirittura quasi dimesso, si trovi uno stacco necessario fra la celebrazione dei luoghi catulliani e quella, diversa ma sempre impegnata, dei giovani napoleonidi.
Anche sotto il profilo delle figure retoriche si possono notare numerose inversioni sostantivo-aggettivo ma oltre a queste il testo si presenta un poco scarno, le immagini sono tutte limpide e lineari.
Il tessuto fonico esalta soprattutto i luoghi in cui si parla del fiume, come al v. 3 l'insistenza su [l] e in generale il ritorno del verbo fonosimbolico mormorare (v. 1, 16); da notare anche al v. 28 l'insistenza su [s] a sottolineare l'immagine della strofe ma in generale mi pare più presente e diffuso un impegno ad arricchire col ritmo il senso dei singoli versi, per es. gli ultimi due, ed esemplare mi pare il v. 25 con un attacco che sottolinea fortemente l'anch'io per poi distendersi quietamente negli accenti su fiume, canto e cantico, senza senso di ripetizione.
Nel complesso Davanti il Castel Vecchio di Verona appare come una poesia fra le più semplici, breve, non particolarmente impegnata e per questo poco studiata dalla critica. Mi sembra però che sul piano del significato acquisti molto dal confronto con le liriche vicine e che nel suo tono medio, addirittura quasi dimesso, si trovi uno stacco necessario fra la celebrazione dei luoghi catulliani e quella, diversa ma sempre impegnata, dei giovani napoleonidi.
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